Hanno
tirato le tende e accostato gli scuri, la stanza è in penombra, se il silenzio
fosse fatto di luce, avremmo delle grosse lampadine al posto delle bocche
invece siamo come dei vecchi pesci in una fontana d’acqua marcia. Spenti.
L’aria
è pesante, un odore dolciastro ammorba i nostri respiri. Avverto il disagio
come una fune che ci costringe gli uni agli altri e che l’assenza di luce ora
accorcia ora dilata, ridicolo per chi come noi ha reciso ogni legame.
“C’è
puzza qui dentro” – “è l’odore della malattia” azzarda una voce, è Giovanna le
corde vocali masticate dal fumo, sembra un uomo. –No, non è la malattia è il
male fuoriesce, libero. Questa è Alba la mia gemella, l’ombra più piccola
appartiene a Pablo, c’è anche lui. Il buio ci protegge da noi stessi
consegnandoci un coraggio che non ci appartiene. Siamo venuti tutti, non
saremmo mancati neppure da morti.
Lei è
enorme ma forse lo immagino soltanto, mi appare come un ragno al centro della
stanza, ne indovino le forme che schiacciano i cuscini, sfumano persino i
dettagli del letto, la spalliera di ferro che domina la camera sembra
rimpicciolita; d’intorno alle pareti guaste e scolorite dagli anni noi come
mosche noiose appiccicate al pavimento. Nessuno fa un passo in più, questo
semicerchio è un patto.
La
badante invece la scruta da presso pronta a coglierne ogni fiato e movimento. –
“da giorni non parla più, pare che dorma, poi d’improvviso sbarra gli occhi ti
guarda che ti pisci addosso”. – Pablo sussulta- “I medici dicono che manca
poco, dovevo chiamarvi”. Io non ci credo mica, i ragni per morire si devono
schiacciare per bene, devi sentire il rumore sotto le suole, altrimenti
scappano e si rifugiano veloci negli angoli e aspettano.
Giovanna
tira vicino a se una sedia, ha il fiato corto, si lascia cadere. Ha profonde
rughe attorno alle labbra, dove si rintana il buio. Ci somigliamo poco. Attilio
non ha detto una parola, stringe qualcosa tra le mani, un telefonino? No un
libricino, lui e le sue preghiere. Prega Attilio, prega, tanto crepa lo stesso.
Se non è oggi, i medici dicono che sarà stanotte e noi questo spettacolo siamo
venuti a godercelo, l’oscurità ci ha accolto e ce la teniamo sulle spalle come
scialle nero.
Pablo
si è accovacciato sui talloni, piange è un bambino che frigna piano solo per
darti ai nervi. Ancora più piccolo ripiegato su se stesso, sembra un cane senza
padrone.
-
Cani, siete cani e se io vi lasciassi senza catena, mi avreste già azzannato.
Cani i miei cani, bau bau Pablo, dai che lo troverai quello che ti
darà l’osso-
Nostro
padre invece l’osso lo aveva mollato si era lasciato morire come un naufrago
che si arrende alla forza del mare. Il sale aveva spaccato il tegumento e
cristallizzato il cuore. Era calato a picco senza protestare.
-Meglio
un morto in più al cimitero che un uomo senza palle in casa-
E
come si faceva a trovare il coraggio? Lei ti succhiava la linfa, eravamo il suo
nutrimento. Nessuno era all’altezza delle sue aspettative.
Così
era accaduto che fossimo cresciuti come dei soldatini di stagno da dileggiare,
da bruciare perché è facile riversare sugli altri il peso delle proprie
sconfitte. La maternità non è un obbligo ma può diventare un castigo.
Adesso
il ragno chiudeva i suoi cento occhi e perdeva il suo veleno. Noi quel veleno
lo avevamo bevuto e ne volevamo ancora, non sarebbe stato la sua fine,
l’antidoto. Chi avremmo odiato se non noi stessi incapaci di sorreggerci e di
condividere il dolore, come avremmo giustificato il nostro male di vivere?
Questa
consapevolezza ci univa in una veglia che era la pantomima del nostro passato,
noi le sue uova marce, la sua bava filamentosa, figli ciechi di un insetto
cieco. Morte o tanatosi? Sì perché da carogna qual era, avrebbe potuto
rialzarsi in mezzo a quel letto e chiamarci uno per uno: Attilio, Pablo,
Giovanna Alba e me quella della quale non si pronuncia neanche il nome, quella
che è già morta. Mi avrebbe guardato e sarebbe scoppiata in una grande risata.
Cerco
le tasche voglio che le mani ritrovino il mio corpo senza che altri se ne
accorgano, in un gesto che mi consoli in segreto, sono cucite. Sospiro
sconfitta dalla mia distrazione. Eppure qualcosa come per un processo osmotico
sconfina e raggiunge il fascio nervoso invisibile che regge la mia impalcatura.
Io faccio io il passo e avverto linee di stupore su quei volti come rette che
spezzano una finta fratellanza.
Esco,
torno alla luce ed è doloroso come un’epifania. Me ne vado, sono un cane della
migliore razza io, la bastarda.
ph dal web